Venice Virtual Reality – Ready for Ready Player One?

75ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Con l’introduzione della sezione Venice Virtual Reality – avvenuta nella scorsa edizione – la Mostra del Cinema di Venezia ha di fatto aperto una porta, dietro la quale era davvero difficile prevedere cosa ci fosse nascosto. Sebbene infatti la creazione di universi e realtà simulate sia ormai da decenni al centro di produzioni cinematografiche e videoludiche, la Virtual Reality pone delle sfide da un punto di vista registico e creativo assolutamente ancora aperte.

È chiaro che mai come in quest’ultimo periodo il mondo dell’audiovisivo si è avvicinato così tanto al poter proporre un’esperienza spettatoriale completamente nuova dal punto di vista estetico e narrativo: le potenzialità sono assolutamente immense e ovviamente ancora non del tutto esplorate. In questa fase sembra innanzitutto necessario capire cosa raccontare e soprattutto cosa raccontare di nuovo con la realtà virtuale. Infatti, anche se non è ancora del tutto chiaro quanto la realtà virtuale potrà dire all’interno della settima arte e all’interno dell’industria videoludica, sembra ormai evidente che i tentativi di espandere il cinema tradizionale a 360º sia una pratica abbastanza priva di senso.

Provando a prenderla un po’ alla lontana, si può partire dal presupposto che il cinema tradizionale trova un senso definitivo nel montaggio; le immagini che scorrono sullo schermo sono quelle e non possono cambiare di una virgola. Che poi lo spettatore lo riapra e ne trovi uno suo, di senso, è un altro discorso. Un videogioco, invece, non segue questa logica: un videogioco è riconfigurabile in ogni secondo, prende senso a seconda di quello che fa un videogiocatore in quel determinato momento. È molto probabile che provando a fare dieci partite dello stesso gioco si avrebbero dieci esperienze differenti.

Il cinema in realtà virtuale, o meglio, l’esperienza visiva in realtà virtuale apre un po’ quel senso. È impossibile che un autore decida esattamente cosa debba fare lo spettatore. La libertà del poter, ad esempio, guardare a destra quando si dovrebbe guardare a sinistra riapre i codici linguistici del cinema tradizionale. Ogni visione sarà infatti sempre diversa, sempre personale: quindi sia da un punto di vista realizzativo che da un punto di vista spettatoriale è effettivamente un’esperienza diversa da qualsiasi altra.

E, grazie alla sua natura così immersiva e diretta, la realtà virtuale richiede a chi la prova in questa fase un approccio totalmente epidermico. La prima reazione è forse paragonabile a quella che avevano i primissimi spettatori di fronte al lenzuolo con l’arrivo del treno dei fratelli Lumiere: qualcosa che il cervello non è ancora abituato a decodificare e che rielabora con una sensazione di meraviglia. In quest’ottica, ogni tentativo di discostarsi dai canoni visivi preesistenti è in grado di regalare almeno uno spunto interessante. I “Griffith” e i “Murnau” devono ancora arrivare e li attendiamo con ansia.

Non appare quindi un caso che rispetto alla scorsa edizione, l’ala della Venice Virtual Reality che ha saputo regalare le novità più esaltanti è quella delle installazioni: uno spazio dove l’applicazione del medium incontra le soluzioni più creative e stimolanti. Tra tutte, l’esperienza che sembra avere davvero la parola “futuro” nel dna è Eclipse di Astruc Jonathan e Favre Aymeric, un’esperienza immersiva e collaborativa in “iperrealtà”: un cortometraggio interattivo fantascientifico pensato per quattro giocatori che unisce cinema e videogame per creare un’escape room virtuale, potenziata da effetti fisici, sensori su braccia e gambe per una piena coscienza corporea e totale libertà di movimento.

Vedere il proprio corpo indossare una tuta spaziale di pixel e rispondere in maniera assolutamente realistica ad ogni movimento è già un corto circuito mentale non da poco. Potersi muovere all’interno di una nave spaziale disegnata in computer grafica, passando da un piano all’altro e avendo la sensazione di aver percorso centinaia di metri al suo interno, quando in realtà non ci si è mossi da una stanza di tre metri per tre, è una sensazione altrettanto clamorosa. Ma il trovarsi davanti gli altri membri dell’equipaggio, poter interagire e collaborare con loro, sapendo che non sono lì con te fisicamente nella stanza, è qualcosa che fa sembrare preistoriche tutte le altre proposte della sezione.

Eclipse è l’Oasis di Ready Player One funzionante e pronto all’uso. È una proposta che riesce ad offrire davvero un’esperienza finora solo immaginata nei film e nei romanzi di fantascienza e che potrebbe dire qualcosa di cruciale in un prossimo futuro.

articolo precedentemente pubblicato su chartasporca.it

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Richard K. Morgan, autore di Altered Carbon, ospite al TS+FF