Avengers – Age of Ultron: la nostra recensione

Quando Tony Stark riprende un programma di mantenimento della pace in disuso, i più grandi eroi della Terra, fra cui Iron Man, Captain America, Thor, l’Incredibile Hulk, Vedova Nera e Occhio di Falco, saranno messi a dura prova per impedire la distruzione del pianeta a opera del malvagio Ultron.

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Spesso tutto si riduce ad essere una pura e semplice questione di peso. Il peso schiacciante del passato e l’angoscia incombente di un futuro incerto influenzano e condizionano costantemente le scelte, i comportamenti e le azioni delle persone. Il cinema, visto come frutto di un pensiero o elaborazione di un’idea, può, nella forma di prodotto filmico, diventare la prova evidente della presenza reale di questo peso e Avengers: Age of Ultron ne rappresenta la dimostrazione concreta. Ogni cosa, nel capitolo conclusivo della Fase 2 dei cinecomics targati Marvel Studios, sembra essere scatenato dalla pressione e dall’eredità degli episodi precedenti e dalla tensione per ciò che riserverà il futuro.

Nella storia del cinema è pieno di film rimasti schiacciati dal peso delle aspettative e da ambizioni smisurate: quante volte sequel e remake hanno deluso i fan perché non all’altezza del prototipo? In questo senso un film come Avengers: Age of Ultron era a rischio altissimo perché con il capitolo precedente Joss Whedon non solo aveva incassato nel mondo qualcosa come 1,5 miliardi (!) di dollari, rendendo Avengers il terzo film più “ricco” della storia del cinema, ma era riuscito e rivoluzionare il concetto di serialità cinematografica, rendendolo immediatamente un film di culto imprescindibile per ogni appassionato di cinema.
Quello che il padre di Buffy e Firefly era riuscito a costruire nel 2012 rimane un unicum nella settima arte: arruolare i personaggi principali di 5 film quasi totalmente slegati l’uno dall’altro e molto diversi tra loro per costruire un episodio che non si accontenta di gestire con una precisione chirurgica una quantità folle di primedonne, senza mai apparire artificioso; non si ferma ad incarnare il miglior capitolo della saga in tutto e per tutto e uno dei migliori blockbuster di sempre, ma vuole (e riesce) a tracciare in maniera evidente la strada da seguire per tutti i capitoli successivi e, non contento, per il cinema d’intrattenimento hollywoodiano in generale.

Per raccogliere, senza battere ciglio, l’eredità di un colosso simile bisogna sicuramente avere del fegato, ma per decidere di non accontentarsi a costruire una copia di un modello collaudato, azzardando un cambio di registro evidente e aumentando notevolmente le ambizioni del racconto, bisogna essere totalmente fuori di melone. Oppure dei geni.
Tornando a parlare di “peso” e di numeri, Age of Ultron, già prima di partire, aveva sulle spalle 10 “capitoli” di successo, tra cui il (già citato) terzo e il settimo (Iron Man 3) film con più incassi di sempre, un numero di fan sfegatati in costante crescita, una quantità di protagonisti (perché nel film di Whedon non esistono personaggi secondari!) apparentemente ingestibile e, seguendo le gesta del prototipo, la necessità di indicare la via per la Fase 3. Le possibilità di non soccombere sotto un carico di responsabilità simili erano pressoché nulle, ma Joss Whedon, con un’intuizione semplicemente geniale, ha esorcizzato il problema mettendolo al centro del film, facendo quindi diventare il “peso” il leitmotiv della storia.

E così in Avengers: Age of Ultron, per la prima volta nella serie, viene esplicitato il problema di essere “super”, mettendo così in evidenza il lato umano degli eroi protagonisti che si sentono schiacciati dal peso del proprio ruolo e dagli eventi vissuti nei precedenti capitoli, fino a cercare di creare qualcosa che possa alleggerire le loro esistenze, eliminando tutti i problemi in un colpo solo. Quel qualcosa è un robot di nome Ultron che, contro le previsioni dei suoi creatori, assume immediatamente coscienza di sé, decidendo di spazzare via i Vendicatori perché identificati come unica causa di tutti i problemi. Ecco quindi che in questo caso la minaccia più difficile da sconfiggere è rappresentata dall’esternazione delle paure e delle angosce dei supereroi incarnate in un personaggio pienamente consapevole del proprio ruolo, che si avvale dell’aiuto di una ragazza geneticamente modificata il cui potere è quello di manifestare nella mente delle persone incubi provenienti dal subconscio. Nel film di Joss Whedon la banda di Captain America si ritrova ad essere causa e soluzione alle minacce che insidiano l’umanità, dovendo, per la prima volta nella saga, mettere in discussione la propria “utilità”.
E come il discorso funziona perfettamente nella costruzione della storia, così può essere benissimo letto da un punto di vista metacinematografico, dove il carico di responsabilità che affliggono il film viene esplicitato, manifestandosi come l’elemento che metterebbe a repentaglio il destino della saga stessa nel caso in cui dovesse riuscire a sconfiggere effettivamente tutti i supereroi, creando uno stato d’ansia perpetuo che attanaglia sia i personaggi del film che lo spettatore.

Con una posta in gioco così alta su più livelli il clima del film cambia notevolmente rispetto al capitolo del 2012. Dove nel primo film il punto di forza era rappresentato dalla presenza di una tipologia di divertimento travolgente ed immediato, che faceva tornare alla memoria l’umorismo tipico dei film d’avventura di Spielberg, Lucas e Zemeckis, qui si respira fin da subito un’aria molto più tesa che spiazza notevolmente lo spettatore che si aspettava un sequel del capitolo precedente. In questo senso, visto il cambio di registro, ci si può sbilanciare definendo Age of Ultron come “L’Impero colpisce ancora” dell’universo cinematografico Marvel, in cui però all’orizzonte non sembrano esserci Jedi pronti a riportare la pace.

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