Da Auschwitz a Interstellar: dare senso ai buchi neri

Da Auschwitz a Interstellar: dare senso ai buchi neri

di Jacopo Berti

Compito della scienza sperimentale è spiegare il funzionamento e la sostanza materiale del mondo che ci circonda; viceversa le arti e le discipline umanistiche, anche quando si avvicinano a quelle scientifiche, ambiscono a una ricerca di senso, nella convinzione che l’animo umano possa individuare, se non nelle cose del mondo esterno almeno nel suo percepirle e farle proprie, qualcosa che trascenda il mero funzionamento meccanicistico e probabilistico, così da garantire un margine d’esistenza e d’azione per la libertà umana.

1

Quanto più l’oggetto preso in esame dalla scienza è lontano dal comune sentire, quanto più assurda appare la sua descrizione in termini comprensibili ai non specialisti, tanto più si avverte la necessità di una sua raffigurazione simbolica e allegorica, che “dica davvero qualcosa”, ovvero dica qualcosa sulle nostre vite in rapporto ad esso.
I buchi neri, a partire dal nome, sono un ottimo esempio di oggetto misterioso ed ambiguo: il loro studio ha messo a dura prova due o tre generazioni di scienziati desiderosi di dimostrarne l’esistenza (la qual cosa, se non erro, è avvenuta intorno agli anni ’70, con l’osservazione di sistemi binari) e di conciliare in essi relatività generale e fisica quantistica. Alla notorietà dei buchi neri presso il grande pubblico hanno contribuito numerosi autori di romanzi, racconti e film di fantascienza, che hanno fatto di questo fenomeno celeste il centro delle loro speculazioni, e dei suoi dintorni (o, incredibilmente, del suo “interno”) l’ambientazione delle loro storie. O banalmente si sono serviti di esso per risolvere i non trascurabili problemi di tempistiche a cui vanno incontro gli imperi galattici degni di questo nome.

Ma a dare realmente un senso non contribuiscono tanto le narrazioni che riportano i buchi neri alle dimensioni umane, quanto piuttosto quelle che, nel bene o nel male, ne riconoscono l’irriducibilità. Prendiamo ad esempio un film come Interstellar (che do per scontato che abbiate visto) e una poesia di Primo Levi, Le stelle nere, che riporto.

In Interstellar, il buco nero in cui entra il pilota Cooper consente all’astronauta di comunicare con la figlia Murphy e, per mezzo suo, col se stesso del passato. La partenza di Cooper (nonostante le sue altalenanti inclinazioni: scrive “stay” ma rivela – pare – anche le coordinate della NASA) è causata dal suo operare all’interno del buco nero, il quale a sua volta è causato in origine dal suo intraprendere il viaggio, in un circolo di eventi il cui limite tende all’incausato e quindi al paradosso. Inoltre sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo – che lo stesso black hole/wormhole e la possibilità da parte di Cooper di visitarlo siano opera di esseri pentadimensionali che non sarebbero altro che gli uomini di un futuro ancora più remoto. Il buco nero si rivela così uno strumento attraverso il quale l’umana specie si appropria della sua storia e diventa unica artefice del suo destino. I tramiti attraverso i quali l’uomo può operare nel passato sono la gravità (che si dice diffusa anche sull’asse del tempo, ma non chiedetemi di più) e l'”amore”, di cui si è tanto blaterato perché, in effetti, la frase “l’amore è l’unica cosa che trascende il tempo e lo spazio” sembra più adatta a un cioccolatino che a un film di fantascienza. Ma solo ad un’osservazione superficiale l’amore, in Interstellar, è indice di uno stucchevole sentimentalismo. A guardar bene esso è funzionale alla comunicazione: al desiderio di stabilire una comunicazione anche a rischio della vita; alla possibilità di decifrare una comunicazione sulla base di premesse che solo una relazione affettiva, in questo caso padre-figlia, può fornire.

Per Primo Levi, viceversa, il buco nero è l’emblema della futilità della vita umana, un richiamo all’esperienza di Auschwitz sempre presente alla memoria dell’autore. Levi, scrittore di opere autobiografico-testimoniali (chi non ha letto a scuola “Se questo è un uomo“?) ma anche di raccolte di racconti di fantascienza (di cui presto o tardi scriverò), legge nel 1974 un articolo del giovane Kip Thorne, lo stesso Thorne che quarant’anni dopo avrebbe visto nel progetto di ‘Interstellar’ un modo di divulgare e di proseguire i suoi studi. The Search for Black Holes appare sul «Scientific American» di Dicembre, e questa è la poesia con cui Levi lo commenta:

Nessuno canti più d’amore o di guerra.
L’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto;
Le legioni celesti sono un groviglio di mostri,
L’universo ci assedia cieco, violento e strano.
Il sereno è cosparso d’orribili soli morti,
Sedimenti densissimi d’atomi stritolati.
Da loro non emana che disperata gravezza,
Non energia, non messaggi, non particelle, non luce;
La luce stessa ricade, rotta dal proprio peso,
E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla,
E i cieli si coinvolgono perpetuamente invano.

I versi, di alcuni dei quali si nota la rispondenza all’articolo di Thorne, descrivono un cosmo inospitale, inadatto alla vita, anzi apparentemente ad essa avverso: le stelle nere sembrano sul punto di inghiottirla per non lasciarne traccia. Nell’ottavo verso, tra tre termini scientifici (energia, particelle, luce) risalta un sostantivo relativo alla comunicazione: messaggi. Questi, soprattutto, sprofonderanno nei buchi neri e non ne usciranno; il destino dell’uomo è in ogni caso quello di abbandonare questa realtà senza lasciare di sé alcuna testimonianza. Il senso dei buchi neri è la mancanza di un qualsiasi senso.
Levi tornerà sull’argomento nel 1981, citando e riportando parte dell’articolo di Thorne nella sua antologia La ricerca delle radici. Qui il senso del tragico è fortemente contrapposto alla soddisfazione per i progressi della scienza: «forse esistiamo per caso, forse siamo la sola isola d’intelligenza nell’universo, certo siamo inconcepibilmente piccoli, deboli e soli, ma se la mente umana ha concepito i buchi neri, ed osa sillogizzare quanto è avvenuto nei primi attimi della creazione, perché non dovrebbe debellare la paura, il bisogno e il dolore?».

Infine, richiama i buchi neri in un articolo su «La Stampa» del gennaio 1987: Il buco nero di Auschwitz. Il tema è quello della comunicazione: lo scopo dei nazisti, così come quello dei revisionisti contro i quali Levi polemizza, era negare l’Olocausto. Dal “buco nero di Auschwitz” non doveva uscire nulla: non energia, non messaggi…
Questo era l’incubo di Levi: l’incomunicabilità, l’impossibilità di dire quel che è stato, il timore di non essere ascoltato. Il cancello di Auschwitz era un orizzonte degli eventi di vergognosa ignavia e complicità: nulla di ciò che accadeva lì dentro poteva influenzare un osservatore esterno.

Dallo stesso fenomeno astronomico, anzi, di più, dagli studi dello stesso autore, si sono ricavate a distanza di quarant’anni due visioni del mondo opposte. Ma non c’è alcuna intollerabile contraddizione: da molto prima che lo facesse qualsiasi scienza, la narrazione individua nelle ambiguità, nelle doppie nature, nelle indeterminazioni e nelle complessità del reale qualcosa che, con umiltà e provvisorietà, può aspirare al vero.

 

Pac-Man returns!

KUNG FURY Official Movie